Chi ama non dimentica

A trent’anni dal primo scudetto, ripercorriamo quel giorno.

“10 Maggio 1987, ore 17,47 Napoli Campione d’Italia”, urlava Giampiero Galeazzi ai microfoni della Rai, intervistando e rincorrendo Ottavio Bianchi, allenatore degli azzurri.

Ma prima? Quella domenica non la scorderò mai, campassi cent’anni, la notte non si chiuse occhio, eravamo troppo impegnati a preparare striscioni e feste per la celebrazione, alle ore 08,00 appuntamento allo stazionamento autobus, si avete letto bene autobus, infatti si chiese ai tifosi di non usare le auto per andare allo stadio, onde evitare intasamenti prima e dopo la partita, dove eravamo rimasti, a si, appuntamento alle 08,00, tutti pronti per arrivare al San Paolo molto prima della partita, Filobus e Metropolitana, allora si chiamava direttissima, alle 10,15 eravamo fuori la Curva A, con stupore notammo che non eravamo soli e neanche i primi, ci sdraiammo a terra per farci le foto, una sorta di selfie di allora, eravamo giovani ed innamorati, come ora, del nostro Napoli, andavamo in trasferta ovunque, non ci ponevamo nessun limite o confine, Napoli era tutto per noi.

I cancelli furono aperti alle 10,30, prendemmo posto, il nostro, quello abituale, eravamo in venti, colazione al sacco e bevande varie, allora si potevano entrare, oggi no, a marenna di rito era salsicce e friarielli, quella portafortuna preparata da mammà, il tempo non passava mai, sembrava si fosse fermato, quelle interminabili ore, alle 12.00 lo stadio era pieno in ogni ordine di posto, tre ore prima della partita, bandiere al vento, cori urlati a squarciagola, fumogeni di ogni genere e tipo, allora le squadre non scendevano in campo per il riscaldamento, il tutto avveniva nelle vecchie e gloriose palestre dello stadio, due, forse tre calciatori scendevano sul prato verde per “saggiare” il terreno, per scegliere le scarpette con i tacchetti adatti, sono sincero, non ricordo quale giocatore del Napoli calpestò il terreno di gioco, ma ricordo benissimo che tutto fecero, tranne che controllare, incantati, ammirati da tanto entusiasmo, quel muro sugli spalti era tutto tinto d’azzurro, le bandiere non permettevano di vedere le persone, era un muro in movimento, era un’onda in movimento, un’onda d’amore senza fine.

Ore 15.00, agli ordini del Sig. Pairetto di Nichelino, le squadre scendono in campo, c’èra più folla sul terreno di gioco che sugli spalti, Maradona a fatica cerca di allontanare fotografi, cineoperatori, cameramen, intrusi e abusivi vari, si arriva a centrocampo mentre in Curva B si alza un fumo denso di colore azzurro, i cori si sprecano, si alzano verso il cielo, per l’occasione più azzurro che mai, mi chiesi, ma quanti siamo?

Dovete sapere che allora non c’èrano i sediolini di oggi, ma solo spalti, ebbene mi voltai, sul mio gradone eravamo in fila per tre, ad occhio e croce eravamo in centomila, considerando che la capienza di allora era di 87.000 spettatori, quando segnò Andrea Carnevale il gol del momentaneo vantaggio mi ritrovai tre gradoni più sotto, per risalire impiegai 15 minuti, immaginate cosa era quella curva, quando la partita finì e per la cronaca terminò 1 – 1, la gioia fu incontenibile, lacrime e sorrisi al vento, ricordo tante persone che inviavano baci verso il cielo e lo indicavano con l’indice, segno che stavano dedicando quello scudetto a chi non c’èra più e che avevano tifato anche per loro, ricordo lo striscione fuori il cimitero: “E’ che ve site perso”, qualche buontempone il giorno dopo ne mise un altro: “E’ chi ve l’ha ditte”, sana ironia, sfottò e saggezza di altri tempi, uscimmo dallo stadio dopo più di un’ ora, era tutto intasato, macchine stracolme di persone che urlavano la loro gioia, erano solo passati sessantuno anni, tanto hanno dovuto aspettare i tifosi del Napoli per dire siamo Campioni d’Italia, fermarli era impossibile, capirli era ammissibile, tanti bambini con le parrucche di colui che ha permesso di scrivere la storia del Napoli, Diego Armando Maradona.

Ci incamminammo per far ritorno alle nostre case, facendolo non credevamo ai nostri occhi, era un serpente azzurro che iniziava dal San Paolo e non finiva più, sotto la grotta che porta a Piazza Sannazzaro, col rischio di diventare sordi, era uno strombazzare di clacson e trombe di ogni specie, in Via Caracciolo l’apoteosi, erano tutti la, sugli scogli, a mare sulle barche, ricordo un ragazzo arrampicato sul semaforo che sventolava la sua bandiera, l’elicottero della Rai che dal mare riprendeva il lungo serpentone azzurro, i balconi degli alberghi del lungomare pieni di turisti curiosi e sorridenti nel vedere uno spettacolo unico nel suo genere, non come in piazza S.Carlo, in una città che manco mi va di nominare, dove ci sono settantasette tifosi e si fa l’appello in TV per farli venire, Napoli è unica nel suo genere.

Via Marina, C.so Garibaldi, Via Foria e Piazza Carlo III, il fiume azzurro non finisce mai, sempre a piedi, stanchi ma felici, stanchi e non sentire la fatica, passare davanti alla pasticceria di Don Antonio, grandissimo tifoso del Napoli, vedere in vetrina la torta del primo scudetto azzurro, comprarla e portarla a casa, perché anche i figli dovevano festeggiare e capire cosa è Il Napoli, cosa è l’unico amore della vita, quello che non si cambia mai, il Napoli, trovarli bardati di tutto punto ed abbracciarli.

Sono passati trent’anni, nel 90’ il Napoli conquistò il suo secondo scudetto passando per una conquista della Coppa Uefa, eliminando la Juve, il Bayer di Monaco, lo Stoccarda di Gaudino, ma il primo amore non si scorda mai, non puoi e allora Napoletano ricordati che “CHI AMA, NON DIMENTICA”, Auguri Napoli mio, al prossimo, quello che verrà il prossimo anno, ed io fra qualche anno, spero di essere ancora qua a raccontare ai nuovi e giovanissimi tifosi azzurri nuove emozioni, nuove gesta, nuove imprese.

                                                                                                                  Claudio Mellone

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