L’Atlético prima del Calderón: l’Estadio Metropolitano

Nel Napoli più iberico della storia, scopriamo le curiosità, gli aneddoti, il modus vivendi della cultura spagnola

¡Hola!
Nel 2016 l’Atlético Madrid cambierà casa. Il mitico ‘Vicente Calderón’ andrà in pensione, i Colchoneros si trasferiranno nel mastodontico Estadio Olímpico, detto ‘La Peineta’, nella zona periferica di San Blas-Canillejas. Un’opera pubblica trascinatasi per anni e ora finalmente pronta all’utilizzo, nonostante la Capital abbia perso per tre volte la possibilità di ospitare il sacro fuoco. L’impianto sarà intitolato alla memoria del grande Luis Aragonés: un’idea che suona alla stregua di una magra consolazione per i tifosi biancorossi, delusi dall’imminente trasloco. Perché per loro il caro vecchio gioiello sulle rive del Manzanares ha rappresentato tutto: successi, trionfi, sconfitte, cadute, rinascite, nuove vittorie. Ma anche perché, bello e grande sia fuori che dentro, il Calderón aveva già saputo raccogliere più che degnamente l’eredità del catino in cui i biancorossi avevano già scritto pagine memorabili: l’Estadio Metropolitano.

IN COMBUTTA COI CUGINI – Nemmeno il tempo di nascere e il neonato Athletic Club Sucursal de Madrid ha già il suo prato verde. Il sodalizio viene fondato da un minuscolo gruppo di studenti baschi nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1903, quale appunto succursale dell’Athletic Club Bilbao. Ebbene, sei giorni dopo, il 2 maggio, i soci fondatori si affrontano in un’amichevole su un campo ricavato all’interno del secentesco Parque del Buen Retiro, nella Ronda de Vallecas attuale Avenida Menéndez Pelayo. Chiamato anche ‘Tiro al pichón’ o ‘Campo de la Rana’, El Retiro è già stato per circa un anno terreno di gioco dei futuri rivali del Real e non dispone di steccato né di recinzioni, soprattutto perché adibito a esercitazioni militari. Ai bordi di esso possono avere accesso almeno cinquecento spettatori, tuttavia appare subito chiaro che uno spazio del genere sarebbe stato presto poco adatto alla già calorosa tifoseria biancorossa. Dieci anni dopo, infatti, avviene il trasferimento al Campo O’ Donnell, auspice l’allora presidente, l’appassionato Julián Ruete, e il facoltoso dirigente Manuel Rodríguez Arzuaga. Le trentamila pesetas messe a disposizione da quest’ultimo consentono non solo di acquistare i terreni nei pressi di Calle O’ Donnell, ma anche di costruire piccole tribunette di legno, con capienza fino a 10.000 unità e notevoli ritorni economici derivanti dalla vendita dei biglietti. Ironia della sorte, a pochi metri di distanza e con indirizzo nello stesso viale, si trova anche l’Estadio O’ Donnell, casa delle odiate Merengues. Il ‘Campo’, ben attrezzato anche per ospitare sfide di baseball, hockey e tennis, si caratterizza tra i migliori di quell’epoca pionieristica, durante la quale l’Atlético conquista il suo primo titolo (il Campeonato del Centro nel 1921) e la fama all’infuori dei confini cittadini. Il pubblico sempre più in ascesa e la volontà di staccarsi definitivamente dalla casamadre basca spingono Ruete ad attivarsi per la realizzazione di un impianto ancora più grande. L’occasione si presenta propizia: l’ammodernamento di Madrid e le costruzioni di nuove opere, ivi compresa la Metropolitana. L’iniziativa viene presa dai fratelli Otamendi, ingegneri di origine bilbaina, mentre il progetto è affidato all’architetto José María Castell, ex giocatore del Real nonché artefice dell’Estadio Chamartín, futuro teatro dei ‘blancos’: i casi della vita …. Il nuovo stadio prende forma, con celerità immediata, tra l’aprile 1922 e il maggio 1923, ubicato al termine dell’attuale Avenida Reina Victoria e in Plaza Ciudad de Viena, tra quelli che oggi sono Calle Beatriz de Bobadilla, Calle Santiago Rusiñol e il Paseo dedicato a Papa Giovanni XXIII. La struttura sorge all’interno di un parco urbano, contornato da attività commerciali a conduzione monofamiliare e dal complesso residenziale nominato ‘Casas Vascas’.

UNA ‘PRIGIONE’ PER GLI OSPITI – Tenendo presente le memorie dell’epoca giunte a noi e considerando le poche immagini ancora oggi visibili, si potrebbe dire che l’Estadio Metropolitano offriva in quel tempo, a chi vi metteva piede, un’impressione stucchevole, piena di stupore e meraviglia. Impressione che si produceva, agli occhi dello spettatore, non nell’ingresso immediato, ma solo dopo essersi avvicinati ai bordi del campo. Ciò accadeva perché l’Estadio era stato progettato all’interno di un vero e proprio anfiteatro naturale, con un dislivello di ben sedici metri rispetto al terreno di gioco. Approfittando di questa singolare conformazione, nel lato sud-est dello stadio era stato possibile mettere su un’enorme gradinata, chiamata ‘la Gradona’, ove si stipavano i beniamini dell’Atlético come pure i tifosi della squadra ospite. In quella stessa zona sud era presente anche la tribuna autorità, luogo privilegiato per la dirigenza colchonera e in cui spesso, nei primi anni, s’intravedeva persino il re Alfonso XIII. Il cuore del tifo madrileno era nel lato ovest, nella gradinata principale in seguito coperta. Le squadre scendevano in campo uscendo dal lato nord, quello ov’erano presenti gli spogliatoi, gli esercizi commerciali, l’infermeria e il tabellone. A est era invece riservato il posto per la maggioranza della tifoseria rivale, quella più accesa e calda: la tribunetta che l’accoglieva, date le dimensioni ristrette, venne soprannominata ‘Jaula’ (‘prigione’, ‘gabbia’). Il terreno di gioco, lungo centodieci metri e largo settantatré, era caratterizzato da un manto erboso tra i migliori di quel periodo in Spagna.

QUARANT’ANNI DI PASSIONE E ONORE – Inizialmente capace di contenere 25.000 anime, l’Estadio Metropolitano viene inaugurato il 13 maggio 1923 con un incontro amichevole tra l’Athletic (si chiama ancora così …) e la Real Sociedad. I padroni di casa vincono 2-1 e la prima storica rete viene messa a segno da Monchin Triana. Inizia così la lunga e intensa storia d’amore tra il grazioso stadio e il pubblico reti di Triana e Vicente Palacios González. Quelli in cui però conosce anche la prima retrocessione in B (la seconda sarà nel 2000) e le enormi faticate per risalire la china e tornare in Primera División. Ma i Colchoneros non hanno modo di godersi la massima serie. La Guerra Civil è alle porte, il fútbol non può continuare dinanzi allo scontro inutile e sanguinoso tra Repubblicani e Falangisti. Agli ‘atléticos’ non viene tolto solo lo svago domenicale, ma anche lo stadio: il Metropolitano si ritrova semidistrutto dopo i combattimenti che martorizzano la vicina Ciudad Universitaria. Finito il conflitto e ripreso il campionato, lo stadio passa nelle mani dell’Aviazione, da poco fusasi con lo stesso club, la quale si accolla insieme all’Esercito la ricostruzione dell’impianto e affida il progetto all’architetto Javier Barroso, ex giocatore biancorosso e futuro presidente negli anni a venire. Si emigra a Vallecas, sul campo già teatro del piccolo Racing Club de Madrid. Ed è lì, in un ambiente ancora in lacrime per i morti, che arriva uno sprazzo di luce grazie ai primi titoli di Campione di Spagna nelle stagioni 1939-40 e 1940-41. I successi fanno da preludio alla rinascita del Metropolitano, puntellato con le coperture alle tribune e l’aggiunta di un’altra piccola gradinata a ovest. 45.000 spettatori assistono alla rentrée il 21 febbraio 1943. Di fronte gli eterni nemici del Real, sconfitti 2-1. Da lì, e per i successivi ventitré anni, quel popolo di 45.000 persone assisterà agli onorevoli risultati di una compagine capace di battersi con orgoglio e ardore contro ogni avversario, e di offuscare già allora, sebbene solo in parte, l’egemonia Barça-Real. I Colchoneros non raccoglieranno poco, anzi: vinceranno due Scudetti (1949-50 e 1950-51) e tre Coppe del Generalísimo (1960, 1961, 1965), e nell’Estadio costruiranno il cammino che nel 1962 li porterà al primo successo internazionale, la Coppa delle Coppe ottenuta contro la Fiorentina. In tutti questi anni i tifosi assistono alle parate di Tabales, San Román, Domingo e Pazos. Alle puntuali chiusure difensive di Griffa, Calleja, Lozano, Callejo, HBerrera e Gabilondo. Alle geometrie e alla grinta di Adelardo, Chuzo, ‘Lobito negro’ González, Mendonça. Alle prodezze di Ben Barek, Carlsson, Pérez-Payá, Juncosa y Escudero (i cinque d’attacco chiamati ‘delantera de cristal’), di Peiró, Sánchez Quesada, Silva, Collar, Jones Castillo e di un giovane, ma già bravo, Aragonés. Vittorie, soddisfazioni, orgoglio: questo costruisce l’Atlético negli anni del Metropolitano. Una magnifica e successiva simbiosi che finisce nel 1966. Cinque anni prima Barroso, l’uomo della rinascita diventato boss biancorosso, ha acquistato un lotto nelle vicinanze del Manzanares: è lì che sorgerà la nuova casa. Quella vecchia verrà demolita immediatamente, lasciando il posto ad attività commerciali. Lo stesso destino attende ora il ‘Calderón’. Il quale, però, ha già scritto altre pagine storiche, sempre belle

¡Hasta la próxima!

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