Dal miracolo Udinese alle liti coi “capitani”: storia di un precursore
Classe 1959, onesto centrocampista, Luciano Spalletti inizia la carriera di allenatore sulla panchina delle giovanili dell’Empoli nella stagione 1993/94. In tre anni porta la prima squadra dalla C alla A, con un playoff vinto ed un secondo posto che significa salto di categoria: in massima serie, l’Empoli si piazza dodicesimo, praticamente un mezzo miracolo che gli vale l’approdo in piazze più importanti. Nel 1998, infatti, viene chiamato a guidare la Sampdoria, ma le cose non funzionano: i blucerchiati retrocedono e Spalletti non riesce nemmeno a terminare la stagione (esonerato). Quindi firma col Venezia, ma anche in laguna proseguono le prime difficoltà di carriera: a febbraio del 2000 viene rimosso dall’incarico.
Dopo un anno di inattività, a decidere di puntare su un tecnico ancora giovane, promettente, ma con già due esoneri sulle spalle, è l’Udinese: nonostante l’obiettivo (salvezza) raggiunto, però, i friuliani decidono di non affidarsi nuovamente a Spalletti. Che così vede nettamente ridimensionare la propria carriera, a tal punto da ritornare in Serie B, alla guida dell’Ancona, dove finisce ottavo. Nel 2002 riconquista l’Udinese: Pozzo lo richiama e non poteva fare scelta migliore. L’Udinese di Spalletti, infatti, centra ben tre qualificazioni europee di fila, di cui due in Coppa Uefa ed una in Champions League: risultati memorabili per i friulani, che soltanto con Guidolin – nella storia recente – sono riusciti a ripetere l’impresa di disputare almeno un turno preliminare della competizione europea più importante per club. Non solo risultati storici, ma anche un’organizzazione di gioco che iniziava a rendere interessanti le idee di Spalletti: l’Udinese giocava un calcio brillante ed efficace, sotto la sua gestione, poi, Spalletti contribuì fortemente allo sviluppo di giocatori come Iaquinta, Di Natale, Di Michele, Pizarro. Il sistema di gioco di quell’Udinese era il 3-4-2-1, che consentiva ai bianconeri di essere pericolosi e propositivi in fase offensiva: proprio Pizarro divenne uno dei giocatori determinanti nell’impostazione dell’azione.
Nel 2005, arrivano per Spalletti i primi riconoscimenti, ma soprattutto la chance della vita: vince il premio come migliore allenatore italiano e cede alle lusinghe di Franco Sensi, che lo porta alla Roma, scippandolo all’Udinese, che ancora lo considera un traditore. Alla Roma, Spalletti apre un ciclo: 4 stagioni di calcio spettacolo, affascinante, imprevedibile, con un sistema di gioco ben definito – il 4-2-3-1. Squadra evoluta la Roma di Spalletti, bella da vedere, dinamica, che alternava possesso palla prolungato – con il doppio mediano De Rossi-Pizzaro a dare qualità e filtro in mezzo al campo – alle ripartenze corte con giocatori di gamba come Taddei, Perrotta, Mancini, i tre trequartisti che agivano alle spalle del falso nove, Totti. Il finto centravanti non è un concetto introdotto da Spalletti, ma sicuramente l’allenatore di Certaldo ha portato alla ribalta un modo diverso di intendere la punta centrale tradizionale; così come la presenza di centrocampisti “moderni”, a tutto campo, senza un posizionamento fisso. Tutti discorsi che oggi ci sembrano scontati, che la maggior degli allenatori conosce ampiamente, ma che all’epoca – invece – non erano del tutto conosciuti in Italia, reduce dal trionfo al Mondiale del 2006, vinto con un tipo di calcio operaio e ancora legato a certi dogmi del passato. Ancora oggi, i romanisti ricordano con affetto e nostalgia quei momenti: la Roma non mette un trofeo in bacheca dal 2008, quando Spalletti superò quella che sembrava l’invincibile Inter di Mancini nella finale di Coppa Italia.
Spalletti lascia l’Italia nel 2010: ritiene conclusa l’avventura giallorossa e vola in Russia. Allenerà lo Zenit di San Pietroburgo per quasi quattro stagioni, dal 2010 al 2014: due campionati, Coppa di Russia e Supercoppa portate a casa, oltre ad uno stipendio faraonico. Esonerato probabilmente più per motivi politici (si era espresso contro l’intervento militare russo in Ucraina) che tecnici, Spalletti vivrà un altro anno e mezzo sabbatico, prima di fare ritorno a Roma. Stavolta eredita una situazione completamente diversa: compito difficilissimo quello di ridare entusiasmo ad un ambiente depresso. Roma a pezzi, tutta da ricostruire: ci pensa – allora – Spalletti, osannato da una piazza che, memore del ‘primo’ Spalletti, confida in lui per tornare ai vertici della classifica. Spalletti ripaga la fiducia di Pallotta e l’entusiasmo dei tifosi rispondendo ancora una volta con i fatti: nel 2016, in soli sei mesi di lavoro, porta la Roma in Champions League. La stagione successiva comincia nel peggiore dei modi: Roma eliminata dal Porto proprio ai preliminari di Champions League dopo un sonoro ko interno per 3-0. C’erano tutti i presupposti per un’annata negativa, ma Spalletti dimostra di essere non solo un allenatore innovativo e preparato ma anche un ottimo gestore: al netto dei rapporti incrinati con Totti, già tesi nel 2008, Spalletti compatta il gruppo, gioca il solito calcio di qualità e nel girone di andata ha una media punti quasi da scudetto. Quell’anno costringe il Napoli di Maurizio Sarri ad accontentarsi, per esempio, del terzo posto, che significò play-off Champions col Nizza: la Roma, invece, arrivò seconda staccando dunque con anticipo il pass per l’approdo direttamente ai gironi. Fu una delle stagioni più controverse per Spalletti: risultati convincenti, ancora una mossa tattica sorprendente – in un Napoli-Roma 1-3 inventò la difesa a “tre e mezzo” -, ma allo stesso tempo un ambiente che insorgeva duramente contro di lui, reo di aver trasformato in un incubo l’ultima storica stagione da calciatore dell’idolo di casa. Nel 2017 entrambi lasciano la Roma: Totti dice addio al calcio, Spalletti stavolta non si ferma e trova subito un’altra squadra, l’Inter. Dopo sei anni di assenza, è Spalletti a mettere la firma in calce sul ritorno in Champions League dei nerazzurri: nel 2017 l’exploit iniziale fece addirittura pensare che quell’Inter potesse lottare per lo scudetto insieme a Juventus e Napoli, poi come al solito la beneamata crollò nel girone di ritorno, che terminò con il gol – decisivo – all’ultimo respiro di Vecino all'”Olimpico” contro la Lazio. Anche l’anno seguente fu un finale al cardiopalma per gli interisti, che soffrirono l’indicibile a San Siro contro l’Empoli, sempre all’ultima giornata di campionato: vittoria immeritata ma fondamentale per mandare in Europa League il Milan. L’Inter di Spalletti non era forte quanto l’Inter di Conte: dunque arrivare in Champions era forse l’obiettivo minimo, nelle corde di quel gruppo, che comunque poteva contare sui gol di un centravanti come Icardi, ma coerente con le potenzialità complessive di un organico certamente non da scudetto. Anche a Milano Spalletti ha fatto parlare di sé per i cattivi rapporti con l’uomo simbolo, il capitano, Mauro Icardi. Tuttavia, l’argentino si “suicidò” da solo a causa della cattiva gestione mediatica della moglie Wanda Nara; ebbe una serie di mal di pancia dovuti al mancato rinnovo, ragion per cui Spalletti lo tenne lontano dai titolari per un paio di mesi.
Spalletti è un allenatore che veramente non ha guardato in faccia a nessuno nell’arco della sua carriera: le sue squadre mantengono una chiara identità con o senza il giocatore più rappresentativo. A Napoli troverà un ambiente incandescente, che proprio da questo punto di vista è chiamato a crescere per non dipendere più dalle decisioni di qualche capo-banda che trascina il gruppo in ammutinamenti vari. È lecito pensare che la scelta di De Laurentiis vada anche in questa direzione: fare “pulizia” nello spogliatoio.