CALCIOPOLI IN CELLULOIDE: ‘ULTIMO MINUTO’

In Italia i più hanno preferito nascondere la testa nella sabbia dinanzi all’altra faccia del calcio. La faccia oscura e criptica (ma non troppo, a ben vedere) degli intrallazzi, delle combine, degli imbrogli. Il rovescio della medaglia di uno sport ove il Dio Denaro diventa il motore di tutto, di ricchezza e sopravvivenza, di lusso e risparmio, fino al punto da fare cadere nell’illegalità e nell’immoralità chi vi è coinvolto. Il far finta che tutto va ben nel football nostrano è caratteristico anche del grande schermo, sul quale quasi mai si son volute mostrare le trame nere e gli sporchi ingranaggi del pallone. Lo squallido e schifoso quadro, pronto a ripetersi ciclicamente e giunto all’apice nel 2006 con lo scandalo-Calciopoli. Solo un regista malinconico, tetro, ma al tempo stesso reale e senza ipocrisie come Pupi Avati poteva riuscire nell’impresa. E in maniera schietta e sincera, fors’anche troppo, e tutt’altro che patetica. Prendendo poi due mostri della comicità come Ugo Tognazzi e Diego Abatantuono e inserendoli nel freddo clima del dramma, affiancati da altri interpreti all’altezza. Questo è Ultimo minuto (1987).

TUTTO PUR DI SOPRAVVIVERE – Da ormai trent’anni l’anziano Walter Ferroni è presidente-factotum di una non precisata squadra calcistica di provincia (non ne viene mai citato il nome nella pellicola). L’attempato dirigente si è sempre dannato affinché la sua creatura riuscisse a giocarsela in Serie A con le grandi, sacrificando affetti familiari (quello con la figlia Marta in particolare) e soldi. E, purtroppo, truccando i bilanci del club e le partite, consapevole di fare tutto solo per disperazione e per consentire una vita dignitosa al suo club. Ora però le cose non vanno più bene. Fondi non ce ne sono, la crisi tecnica si aggrava, data anche la presenza in panchina di un allenatore come il modesto Corti, sicché Ferroni accetta l’ingresso in società di un nuovo presidente, il ricco imprenditore Renzo Di Carlo. Ambizioso e un tantino arrogante, costui tuttavia non ha solo forze fresche da fornire, bensì nuove idee, orientate verso una gestione più snella, oculata e, soprattutto, più pulita. Tanto basta affinché la new entry trovi il pretesto per assumere pieni poteri, scalzando così rumorosamente e polemicamente Ferroni. Anche Corti, bistrattato a suo tempo dallo stesso Ferroni, viene messo da parte. Uscito improvvisamente da quella mischia nella quale ha sempre lottato con le buone o le cattive, l’ex capo fatica a rimettere insieme i cocci. Il rapporto con la sua Marta, spesso strumentalizzata in nome delle buone sorti della squadra, è ai minimi termini, anche per la liaison dangereuse da lei avuta con Boschi, tormentato attaccante sul viale del tramonto con una famiglia, ma anche col vizio delle scappatelle oltreché delle combine facili. Messo fuori squadra per essere fuggito dal ritiro, Boschi si rifugia proprio a casa di Walter il quale accetta di tenerlo con sé, malgrado le titubanze, e si prodiga per trovargli una sistemazione. Lavora dietro le quinte, il vecchio leone, pur di mantenere la baracca. Ha preso contatti con un noto talent scout, Duccio Venturi, uomo dalle tante maniglie e solerte adepto di quel ‘do ut des’ senza il quale non potrebbe tessere la sua tela di giovani interessanti. Tra queste, l’appena diciassettenne Marco Tassoni, scovato su un polveroso campo di periferia e mandato a farsi le ossa in Primavera. E, in punta di piedi, Ferroni ha avuto un incontro con l’Avellino, compagine tra le prossime avversarie della sua squadra, e alla quale Venturi è legato dai soliti favori. Tutto questo perché le sorti della ‘squadra’ volgono già per il peggio. Finché, spinto specialmente dai tifosi, Di Carlo si convince a riammettere nei quadri Walter. Che però detta le sue condizioni, puntualmente accolte. La guida tecnica spetta a lui, con il rientrante Corti ridotto a mero fantoccio in panchina. Torna Boschi, e con lui anche il suo collega Morelli, inattivo da tempo immemore. Si giunge così alla sfida con l’Avellino. Il marchingegno architettato dallo scafato Ferroni, con la gentile collaborazione di Venturi, è pronto a scattare. Tassoni, convocato a sorpresa, non sarà altro che l’ignara pedina del gioco a cui contribuiranno anche gli irpini. Quel gioco che, tuttavia, rischia di andare a monte sul più bello, visto che Boschi (il lupo perde il pelo …) si accorda con uno scommettitore per la sconfitta, e difatti sbaglia volutamente un rigore. Morelli poi si fa espellere. Tutto sembra finire male. Ma Ferroni ha notato gli strani conciliaboli di Boschi con il losco individuo, e così a pochi minuti dal termine lo leva di mezzo facendo entrare Tassoni al suo posto. Mentre il bomber entra amareggiato negli spogliatoi, la combine può avere luogo: all’ultimo minuto il ragazzo segna una rete che regala alla ‘squadra’ la prima vittoria della nuova ‘era Ferroni’. Pubblico e staff esultano, sommergendo di abbracci l’eroe della domenica. Walter, sprofondando sulla panca, scarica tutta la tensione, anche alla faccia di Di Carlo che riteneva folle affidare le sorti della partita a un giovane debuttante. Dietro la felicità però c’è del marcio, anche se non tutti lo sanno, tra coloro ivi presenti in quel momento. E chi ne è consapevole sembra quasi dimenticarsene.

COME NELLA (SPORCA) REALTA’ – Tempo fa vi abbiamo parlato di un altro film sul calcio, L’allenatore del pallone, sottolineando come i protagonisti, reali o verosimili che siano, rappresentano topoi e figure tipiche del nostro mondo della pedata. Inseriti tuttavia in un contesto comico, non senza punte di suspense, ma troppo incentrato sul buonumore e sulla risata, quindi poco intenzionato a raccontare ciò che potrebbe essere la realtà. Una realtà che, ai tempi dell’uscita di Ultimo minuto, il pubblico ritenne forse troppo brutta per essere vera. Il film non ebbe il giusto premio ai botteghini, a differenza invece di quanto fece la critica, quasi unanime nel riconoscere ad Avati il merito di aver ritratto con coraggio e obiettività il volto corrotto del football. Le componenti metastatiche del circus pallonaro, presenti già allora come oggi, ci sono tutte, volte al proprio interesse senza scrupolo alcuno di inquinare una passione. Ferroni, incarnato da un eccezionale Tognazzi alla sua penultima interpretazione, è il classico prototipo del dirigente dall’onestà fragile, anzi per nulla esistente. Certo, tutto ciò che produce comporta benefici essenziali per la squadra, quindi per i suoi giocatori come per gli appassionati tifosi. E’ chiaro che, se la squadra si ferma, anche la sua vita rischia di bloccarsi. E affinché ciò non accada agisce spedito, guidato da conoscenze e competenze, ma privo di buona creanza. Non sembra un caso se il personaggio di Ferroni si ispiri a Italo Allodi e al Luciano Moggi prima maniera: parola di Italo Cucci, autore di soggetto e sceneggiatura insieme a Michele Plastino e ai fratelli Avati. Se salta un ingranaggio può fermarsi anche la rete intessuta da Venturi, un Abatantuono ormai lontano parente del ‘Terrunciello’ degli esordi. Furbo, egoista, millantatore, talent scout nelle cui mani i giovani come Tassoni sono soltanto tessere ingenue di un puzzle che deve fruttargli il più possibile; e di ciò egli ne dà svergognatamente conoscenza alle sue ‘vittime’. Un losco figuro che nel calcio odierno ha una miriade di seguaci. In Corti (Luigi Diberti) è impossibile non vedere l’archetipo del mister mediocre e bravo solo a fare atto di presenza, ché la squadra in realtà viene allenata populisticamente dal presidente. Ecco, il presidente. Di Carlo (Lino Capolicchio, bravo pupillo di Avati) non è accomodantissimo caratterialmente, eppure cerca di mettere fine per sempre al teatrino dell’imbroglio edificato in tanti anni da Ferroni. Quando si rende conto che quel teatrino aveva rappresentato, nella sua illegalità, l’unica ancora di salvezza del club, accetta il compromesso, diventa complice del misfatto, si mostra debole. Boschi (Massimo Bonetti, tanto cinema e tv), attaccante di razza, ha i goal nella testa, ma i vizi di tanti suoi colleghi reali non gli mancano, e di certo non fanno di lui un esempio edificante. Prova ne è che Marta (Elena Sofia Ricci, ancora giovanissima e un po’ algida), quando Tassoni mette a segno il goal finale, è l’unica a non esultare col resto della tribuna: è delusa e amareggiata, sa perfettamente che, con quella combine poi saltata, il suo amante ha chiuso per sempre col calcio. Quel calcio in cui tutti sono partecipi e collaboratori al marcio. Persino il capotifo, che non contesta Ferroni soltanto perché detiene l’appalto dei gabinetti dello stadio. Persino i giornalisti, pronti a sbucare come funghi a caccia di scoop e aiuti. Prestano i loro volti reali Aldo Biscardi, Ferruccio Gard, Enrico Mentana, Enrico Ameri (sua la radiocronaca della partita finale). Vent’anni prima di Calciopoli, dunque, tutto sembra già scritto. Molto, molto simile a quel che si vede ancora adesso, nonostante scandali, processi, squalifiche eccetera. Film da vedere, per imparare. Sempreché ci sia voglia di farlo per il bene di uno sport.

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