NOBLESSE OBLIGE

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La nobiltà obbliga. Nel bene e nel male. L’istituzione nobiliare è così desueta che ormai chiunque provi ancora ad atteggiarsi come tale scade inevitabilmente nel grottesco. I Savoia, le RipadiMeana, le DeBlanck; le sigarette elettroniche, i pollai televisivi, i reality show. Quanto stridono la pretesa di essere aristocratici e il successivo riscontro con la realtà: noi comuni mortali tendiamo ad accanirci sui nostri (sedicenti) dissimili molto più che sui nostri simili, proprio in virtù di quell’arroganza da eletti che li caratterizza. Noblesse oblige, appunto.

 

Onori e oneri. È per questo che Paolo Cannavaro fa così rumore. Fratello d’arte, ex enfant prodige e poi onestissimo mestierante della A, lanciato da Reja e responsabilizzato ulteriormente da Mazzarri. La fascia di capitano fu un atto dovuto per il cadetto generoso che da leader condusse il suo Napoli nuovamente nell’Olimpo del calcio. La Champions League, la Coppa Italia sollevata all’Olimpico di Roma, con quella fascia al braccio, come apice di una carriera da profeta in patria. Stagioni scintillanti, tanto da richiedere a furor di popolo un esordio in Nazionale che non è mai arrivato, segno che il blasone cala – e molto – quando si esce dai confini regionali. Poi Benitez, la difesa a quattro, il declino. La caduta vertiginosa fino allo schianto fragoroso dell’Olimpico. Sì, proprio l’Olimpico di Roma. Strana la vita: dall’altare alla polvere in un anno e mezzo, stesso posto, stessa ora. A fare da soundtrack a quest’avvincente storia umana i suoi fidi scudieri, Enrico e Gaetano Fedele. Padre e figlio, il crisma di nobiltà nel lavoro ereditario, il nomen omen come lifestyle. Un casato che serve un altro casato, fedeli alla linea nei secoli dei secoli, nel bene e nel male, in salute e in malattia. Anche nelle dichiarazioni. Dai complimenti alle critiche, dai momenti belli a quelli brutti, il mantra dei Fedele è stato sempre lo stesso: Cannavaro va osannato e rispettato, sempre e comunque. Perché è Cannavaro, non perché sia bravo.

 

 

Ecco, è proprio questo il punto. Paolo Cannavaro non ha colpe decisive nelle recenti disgrazie del Napoli come non aveva meriti specifici nei successi. È un ingranaggio ora come lo era allora; naturalmente un ingranaggio importante, come quella fascia che portava al braccio. Che è tanto, ma non è tutto. Ai suoi procuratori basterebbe intuire questo dettaglio per gettare acqua, anziché benzina, sul fuoco delle polemiche. Basterebbe evitare di nascondersi dietro ad un dito ed assumersi qualche responsabilità, invece di tirare in ballo gli Hamsik e i Pandev. Basterebbe che Paolo Cannavaro il posto provasse a guadagnarselo anziché farlo chiedere a gran voce. Perché è bravo, non perché è Cannavaro. Perché si sa, quando c’è crisi il popolo se la prende con i nobili, prima ancora che con i ricchi. E in fondo, forse, con un bagno di umiltà si sarebbe scongiurata perfino la Rivoluzione Francese. 

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