Luisito Suárez, l’architetto spagnolo

Nel Napoli più iberico della storia scopriamo le curiosità, gli aneddoti, i modus vivendi della cultura spagnola

¡Hola!

Di leggende il calcio spagnolo ne ha avute tante. In questa categoria, ristretta ma non troppo specie dopo i fasti dei tempi moderni, un giorno verranno senz’altro annoverati i sapienti giocolieri che negli ultimi anni hanno regalato alla Spagna due Europei, un Mondiale e una miriade di trofei a livello di club nel vecchio continente e nel mondo. Tra questi avranno un posto d’onore i centrocampisti: Iniesta, Xabi Alonso, Xavi, Fàbregas. Tuttavia essi dovranno chinare il capo, forse per sempre, dinanzi a colui ch’è stato il loro magistrale progenitore, il loro padre calcistico: Sua Maestà Luis Suárez. Per tutti, semplicemente Luisito. Soprattutto per i tifosi di una parte di Milano.
ARCHITETTO D’ORO – Non è un castigliano puro il buon Luis Suárez Miramontes. Anzi, nasce (il 2 maggio 1935) a La Coruña, nella fredda ma orgogliosa Galizia, nel Nordovest, quasi ai confini col Portogallo. Cresce in calle Hercules, nel quartiere popolare di Monte Alto, lì dove comincia fin da bambino a tirare calci alla pelota. Ma il piccolo Luisito è magrolino, sicché per fortificarlo suo padre Augustín, macellaio, s’inventa il più naturale dei ricostituenti: tanta carne al sangue e vai col tango! Eh sì, perché il ragazzo cresce bene, sano, veloce, con le stesse movenze di un elegante danzatore: in tal modo agisce in campo, fin da subito. All’inizio gli piace fare la mezzapunta, sebbene un po’ atipica; non ha il guizzo dei pazzi geni che indossano quel numero, semmai le geometrie, l’ordine e il cronometraggio di chi potrebbe anche interpretare il numero 8. O all’occorrenza il 4. Massì, tanto con quei lanci lunghi di quaranta-cinquanta metri può tranquillamente giocare dietro, all’altezza della mediana. Ch’è poi il ruolo con cui farà maggiormente la storia. E’ talmente bravo da suscitare l’interesse di Alejandro Scopelli, argentino ex oriundo e allenatore del Deportivo, il quale agli inizi degli anni ’50 lo arruola tra le fila del club del capoluogo. Un apprendistato al Fabril, la squadra B del Depor, e poi il debutto nei ‘grandi’ nella stagione 1953-54: 17 presenze e tre reti nella Liga, niente male per un non ancora ventenne. Eppure i ‘Turcos’ non fanno in tempo a goderselo, giacché su di lui ha già allungato lo sguardo il Barcellona. Dunque, in quell’estate del ’54 Suárez approda in Catalogna, alla corte del piacentino Sandro Puppo. È il Barça che a livello nazionale contrasta lo strapotere europeo del Real Madrid. Soprattutto è il Barça di Ladislao Kubala, bomber implacabile ma anche leader ingombrante, personalità troppo accentratrice e troppo ‘forte’. Tanto che quando nel 1958 al Camp Nou arriva Helenio Herrera, l’ispano-ungarico trova pane per i suoi denti. All’intransigente Mago non piacciono i solisti, già allora predica l’unità del gruppo, il venirsi incontro l’un l’altro. Per quel tipo di calcio ci vuole uno come Luisito. E lui il suo lo fa, altroché: in otto stagioni 122 presenze e 61 goal. Sono anni belli, quelli in blaugrana. Gli anni in cui un’altra leggenda, l’amico-rivale Alfredo Di Stéfano, lo ribattezza ‘El Arquitecto’: ovvio il motivo. Gli anni di due Títulos de Liga, due Coppe di Spagna e due Coppe delle Fiere, la nonna dell’Europa League di oggi. Gli anni contornati dalla meritata conquista nel 1960 del Pallone d’Oro, unico spagnolo verace (Di Stéfano era argentino di nascita …) a fregiarsi del riconoscimento. Ma la crisi economica dei catalani costringe il presidente Enric Llaudet a metterlo in vendita, ed ecco che su di lui si fionda Angelo Moratti, patron di un’Inter destinata a ricevere l’appellativo di ‘Grande’ nei secoli dei secoli. La squadra alla quale il cuore del diretto interessato rimarrà sempre legato.

CERVELLO BENEAMATO – Per circa 300 milioni di lire (cifra-bomba all’epoca) Suárez arriva a Milano nell’estate del 1961, primo ispanico a calcare i campi nostrani. E nel clan nerazzurro ritrova proprio lui, Herrera. Ma quell’Inter non è ancora portentosa. Ha appena perso uno Scudetto, vinto dalla Juventus tra tanti veleni, e per soprammercato ha chiuso quella stagione amara cadendo 2-0 a Catania. È il giorno del “Clamoroso al Cibali!”. Quel giorno in Sicilia c’è anche lui, Luisito, ad assistere dalla tribuna alla figuraccia della sua futura squadra. L’indomito Mago intuisce fin da subito che per dare lucidità a quell’Inter bisogna affidarsi a un architetto. Ed è proprio alla Scala del calcio che avviene la decisiva metamorfosi di Luisito: da mezzala a regista, da numero 10 a numero 8 (e poi 4, in seguito). Un mediano tuttofare, un centrocampista pronto a far partire i suoi compagni d’attacco con le sue potenti sventagliate. A lanciare in contropiede, marco di fabbrica di ‘HH’, prima Hitchens, Bicicli e Bettini. Poi, le colonne di quella squadra che conquisterà il mondo intero: Mazzola, Domenghini, Jair, Corso, Milani, Peiró. E, quand’ancora scorrazzava dafluidificante, l’indimenticato Facchetti. Di quella macchina da guerra Suárez è motore e cervello. Cervello tecnico e sopraffino, cervello di geometrie e parabole celesti. Non è l’unico; ce n’è un altro là dietro, a salvaguardare la difesa, a rimediare agli errori: Armando Picchi, un signore andato via troppo presto. Tanti signori ha quell’Inter, il Dream Team che negli anni ’60 si porta a casa tutto quel che c’è da vincere: tre Scudetti, due Coppe Campioni, due Coppe Intercontinentali. Vittorie memorabili, lezioni di calcio, imprese storiche, applausi su ogni campo. Difensivismo sì, espressione (non massima, ma quasi) del binomio italico catenaccio-contropiede. Eppure, negli occhi di coloro che oggi vanno dai cinquanta a salire, restano ancora impressi quei lanci lunghi, quelle traiettorie imprendibili, proiettili traccianti sparati dal direttore d’orchestra galiziano. Decisivo per i nerazzurri, come per le sue Furie Rosse. Che grazie anche a lui trionfano negli Europei 1964 contro il colosso sovietico. E trionfano in casa, al ‘Bernabéu’, dinanzi al Generalísimo Franco. Quella vittoria è la sua, la vittoria della destra contro il ‘mostro’ comunista. Ma sono le gesta del campo a contare. Quelle di Luisito ovviamente, oltreché di Marcelino, Pereda, Amancio, Fusté, Iribar e Zoco. E in Nazionale Suárez giocherà a lungo, totalizzando l’ultimo gettone addirittura a trentasette anni in un’amichevole contro la Grecia. Siamo nel 1972. L’epopea interista è terminata da un pezzo. Il regista dai piedi fatati ha cambiato aria allorquando un altro Herrera, il sopravvalutato Heriberto, ha deciso che gli anziani non meritano più spazio. E Ivanoe Fraizzoli, successore di Moratti, ha preso la decisione dolorosa di cederlo alla Sampdoria nell’estate del ’70. La sua classe sarà più che sufficiente a salvare per tre anni di fila i blucerchiati dalla B. Fino al 1973, quando Big Ben dice stop e decide di appendere le scarpette al chiodo.

OSSERVATORE E’ MEGLIO – Senza campo non sa stare, Luisito, vuole respirare l’aria fresca dell’erba verde sebbene nelle vesti di generale fermo. E inizia così fin da subito la carriera da allenatore. Ma le sue avventure da mister non saranno tutta rosa e fiori, e quasi sempre non per colpa sua. Come nel 1974, quando accetta la proposta di Fraizzoli di ritornare all’ovile. L’Inter, la sua prima panchina in Serie A: bel debutto! Purtroppo lo spericolato mix di vecchi compagni di squadra e giovani leve rampanti è troppo grezzo per uno alle prime armi come lui. I ‘Baùscia’ arrivano noni. E non è che l’antipasto: esonero a Cagliari e retrocessione in C a Ferrara. Il decaduto Depor lo riporta a casa per salvarsi in Segunda División (eh sì…), e lui compie la missione. Gliene attende un’altra, ben più prestigiosa: guidare l’Under 21 delle Furie Rosse. Con cura certosina Suárez coltiva i talentini spagnoli degli anni ’80, quelli che non vinceranno nulla in Nazionale Maggiore, e che tuttavia si toglieranno grosse soddisfazioni con i loro club. Quelli che nel 1986 regalano alla ‘Rojita’ il primo dei suoi quattro Europei di categoria, vinto in finale ai rigori contro l’Italia. Per l’Arquitecto arriva così il grande salto: la ‘Roja’. Italia 90 però è una delusione: la Spagna vince il girone e poi cede alla Jugoslavia negli ottavi. Criticato dalla stampa per la mancata qualificazione agli Europei di Svezia e messosi contro i senatori, chiude sbattendo la porta. E il cuore lo riporta lì, a Milano. La Beneamata lo chiama al capezzale nel ’92 al posto di Orrico, e nel ’95 dopo Bianchi e prima di Hogdson. Massimo Moratti lo vuole con sé: sarà dirigente fedele e valido capo del reparto osservatori. Scoverà giovani interessanti. Uno su tutti Cristiano Ronaldo, quand’era ancora virgulto nello Sporting Lisbona: se lo lasceranno sfuggire …. Pazienza. Porterà sempre la scorza dura e orgogliosa di galiziano, ma soprattutto di interista. Sciorinerà giusti e sinceri pareri sul calcio di oggi. E sui calciatori di oggi. Specialmente i mediani. I quali, chissà, qualche volta lasceranno perdere il tiki-taka e si abbonderanno allo schiribizzo di imitare i suoi lanci lunghi e precisi, simboli di un football romantico che non c’è più.

¡Hasta la próxima!

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