L’eterno capro espiatorio, tra Gattuso e scorie ambientali
Il calcio giocato non si sa più quando lo rivedremo. Pleonastico avventurarsi quindi in ambiziose ed azzardate previsioni: sbagliano persino i medici, ed è tutto dire. Meglio allora cominciare già a pensare a quello che potrebbe accadere – e cambiare – quando tutto sarà tornato alla normalità. Come ripartirà il Napoli di Gattuso – se di Gattuso sarà? Ma soprattutto verrà finalmente avviata una decisa e sana ricostruzione o si deciderà di continuare a “vivacchiare” all’insegna della solita linea conservatrice? Quest’anno, al netto del coronavirus che oramai ha assunto connotazioni planetarie, a livello “locale” – nel mondo Napoli – è accaduto davvero qualsiasi cosa. Impossibile dimenticare una stagione che probabilmente passerà agli atti come memorabile pur non avendo portato alcuna gratificazione. Anzi, tutt’altro, le controversie hanno a tratti rasentato il grottesco per la facilità con la quale hanno penetrato livelli di professionismo così alti: si pensi all’ammutinamento, una delle pagine più buie – insieme ai fallimenti societari vari – della storia del Napoli e che certamente lascerà in eterno una traccia indelebile pure in ognuna delle carriere dei singoli ammutinati e di chi, più o meno involontariamente, ne ha prodotto le scatenanti cause.
Gran parte della tifoseria si è sentita come tutt’a un tratto tradita non più dal solito Sarri o Higuain di turno – ferite da poco, a confronto -, ma stavolta da quelli che fino ad una domenica prima avevano acclamato come degli eroi che nonostante tutto – uno scudetto mancato, ad esempio – erano ancora lì, al loro fianco, perché in fondo erano “colpevoli” di aver creduto ad Ancelotti, unico degno erede di un ciclo non vincente ma irripetibile, singolare. Allora caccia alle streghe, ai colpevoli, indici puntati verso chiunque, in particolare nei confronti dei ribelli o di chi poteva meglio governare le diplomazie del caso. Su tutti, un nome che ha scontato caro e amaro la sua pena appartiene ad un ragazzo, che al pari della maggior parte dei giocatori di talento a ricevere fischi e pernacchie che si avvicendano più velocemente della luce e delle tenebre è oltremodo abituato: è Lorenzo Insigne. Il capitano, presunto attuatore della frattura, co-autore dei fatti post Napoli-Salisburgo insieme ad altri compagni – particolare trascurato e tra l’altro tutti ascrivibili al partito dei “senatori”: l’eterno capro espiatorio d’una città che per darsi un tono deve abitualmente costruirsi un nemico, che nell’anno in cui evidentemente non può chiamarsi “Juventus” perché troppo lontana in classifica, o “classe arbitrale” perché i mancati rigori a favore contano meno se non lotti per lo scudetto, è stato ugualmente individuato probabilmente nell’uomo peggiore, quello umanamente più fragile e tecnicamente più determinante in campo, che inevitabilmente s’è trascinato con sé, e quindi sul rettangolo verde, uno status generale assolutamente compromesso, inadeguato a fornire le vecchie prestazioni. In pratica, come danneggiare un’intera squadra di calcio in un colpo solo, scagliato per giunta su uno solo: un paradosso incredibile, un tutorial amatoriale di quelli che diventano virali e fanno milioni di views.
Devastanti le conseguenze, ovviamente: mentre la situazione in classifica precipitava costantemente, tra gli infortuni di alcuni uomini simbolo, Mertens, Koulibaly, e l’involuzione clamorosa delle eterne promesse piuttosto che l’improvvisa astinenza da gol di Milik, il malcapitato Gattuso si era ritrovato di fatto solo al comando, senza un leader – dicasi uno solo – su cui puntare. Che avrebbe dovuto essere appunto Insigne. Che soltanto grazie alla cura Gattuso, con il quale ha un rapporto splendido – lo si evince dall’intervista rilasciata in quarantena a Sky -, è poi tornato ad esserlo. Dentro, donando nuovamente picchi di calcio straordinari in serate di gale – decidendo la sfida alla Juventus, tracciando il cammino in Coppa Italia con la doppietta al Perugia e la prodezza alla Lazio, ed anche fuori – donando, stavolta soldi, per combattere l’emergenza batteriologica e facendo compagnia alla gente rimasta a casa con esilaranti, conviviali contributi social. Pace fatta, allora, almeno con i tifosi. Fronte societario non arrivano segnali negativi, a livello mediatico è uno dei più coinvolti nelle scelte comunicative del club, dalle più semplici iniziative che lo identificano con la napoletanità – in questo periodo il Napoli lo ha indicato come “testimonial” dei suoi particolari flash mob in tema Coronavirus -, alle esclusive concesse agli organi di informazione per consentirgli di parlare.
Gli indicatori che dunque fanno pensare che Insigne possa tornare l’elemento di punta, centrale del progetto Napoli anche al di là della ripresa nazionale che seguirà la pandemia e nello specifico del Napoli che sarà chiamato a ritornare ai vertici del campionato italiano dopo le delusioni recenti, ci sono tutti. Occhio come sempre al fattore mercato e all’imprevedibilità del suo agente Raiola, che in generale non bisogna mai trascurare, ma che ipotizziamo possa essere anche lui “colpito” e frenato dall’emergenza contingente in ottica possibili operazioni alle quali è comunque difficilissimo provare a capire che tipo di spazio e di tempo verranno riservati la prossima estate. E se le tempistiche dovessero essere assai ridotte sarà altamente improbabile assistere a clamorosi colpi di scena che porterebbero a grossi movimenti. Ancora Insigne e Napoli, Napoli e Insigne, pertanto: una storia per certi versi senza logica, con continue incomprensioni e tenere tregue, spesso oscillanti tra cambi in panchina che ne determinano – nel male e, non ultimo, nel bene – le sorti. Ci sono allenatori che gli fanno proprio bene, è estremamente evidente. La guida tecnica è un fattore decisivo per Lorenzo Insigne. Una caratteristica, ma in fondo anche il suo più grande limite.