Il calcio impantanato (e ‘alla sbarra’) di Beha
Nel 2011 il longevo giornalista fiorentino, in collaborazione con Andrea Di Caro, dà alle stampe un ritratto intricato e macchiato del mondo della pedata. Del quale sono artefici tutti, tifosi compresi
Di uno come Oliviero Beha a Napoli diremmo che “nun è ddoc’’e sale”. Un detto pittoresco, come ce ne sono tanti nel nostro adorato vernacolo. Un ossimoro singolare per indicare il duro, il testardo, l’antipatico. E dunque, la persona sempre pronta a guardare oltre la faccia positiva delle cose umane, a sviscerarne il rovescio della medaglia. A ragione o a torto. Ecco, Beha fa questo col calcio (e con la politica) da anni, tanto da giornalista quanto da saggista. Nulla da dire circa la preparazione, l’impegno e la rabbia, tipici di chi cerca di aprire gli occhi a un popolo dormiente come quello italico. Solo che nel suo caso non si riesce mai a definire nitidamente il confine tra torto e ragione. Non è mai facile, cioè, capire se quanto da lui riportato si basi totalmente su fondamenta sicure o meno. Una sensazione che non può non scorrere lungo la schiena dopo aver letto Il calcio alla sbarra, scritto a quattro mani con il collega Andrea Di Caro nel 2011 ed edito Rizzoli.
PERCORSO A PEGGIORARE – L’ultima (finora) fatica del giornalista fiorentino sullo sport più popolare del mondo rappresenta l’ideale, ancorché momentanea, chiusura di due percorsi. Quello intrapreso dall’autore nel 1983 con All’ultimo stadio e proseguito negli anni successivi fino a Indagine sul calcio, uscito nell’anno di Calciopoli. Opera della quale si può definire Il calcio alla sbarra l’ideale continuazione. Meglio, l’edizione aggiornata. Il suddetto percorso è il medesimo portato avanti da Beha in decenni di fervida attività da cronista, talvolta in modo rovente, rasentando l’incredibile e il sensazionale. Caso paradigmatico in tal senso è quello presunto di Italia-Camerun ‘82, partita terminata con un pari deciso di comune accordo in campo, spontaneamente, tra i contendenti. Così afferma Beha in quella torrida e trionfale estate. Come si vede credergli non è così facile, e non lo è ancora oggi, sebbene l’autore riecheggi nel libro l’episodio a distanza di trent’anni. Il secondo percorso è quello dello stesso calcio italiano. Una lenta e progressiva china verso il baratro. Una caduta costellata da una perenne perdita di credibilità e pulizia. Una discesa iniziata negli anni ’80, anche se a ben vedere i suoi prodromi sono tutti nei primordi. Fin dal 1927, dal Caso Allemandi, il primo grande scandalo del pallone biancorossoverde. E infatti, nelle 700 e passa pagine de Il calcio alla sbarra, c’è tutto quanto di obbrobrioso ha prodotto il calcio italiano in tre decenni. Ci sono le fitte e consolidate commistioni con la politica, talmente potente e ramificata da servirsi dello sport per i suoi scopi. E da invertire i ruoli, laddove in precedenza è stato il calcio a sfruttarla. Troppo evidentemente. Fino al punto da rendere naturale le ingerenze degli Andreotti e Berlusconi di turno. Fino a trasformare la partigianeria partitica in uno scontro da stadio, una metamorfosi avente come complici ovviamente anche certe frange ultrà. Ci sono le infiltrazioni della criminalità organizzata. Ci sono le misteriose morti di calciatori, su tutte quelle di Bergamini e Di Bartolomei. Ci sono truffe di vario genere, imbrogli, mezzucci, sotterfugi, il cui scopo precipuo è quello di sfangarla, di vincere una partita, di ricavare un tornaconto personale. E ci sono i silenzi, le omertà, gli insabbiamenti. E la gente, i tifosi, la parte apparentemente sana del Circo Barnum, dovrebbe indignarsi, no? Da quanto scrivono Beha e Di Caro, pare proprio che chi assiste allo show si sia talmente assuefatto all’illegalità da scambiarla per limpidezza, per una piacevole abitudine da lasciare immanente a sé stessa. A differenza di quanto avveniva prima. Del 1980, soprattutto, dello scandalo Totonero. Il coro di indignazione lì è durato lo spazio di un mattino, con contorno, peraltro, di condanne sentenziate sommariamente, quasi nel mucchio. Il successo ‘mundial’ dell’82 e il perdonismo che n’è seguito hanno segnato, evidentemente, un punto di non ritorno. In fondo, per la gente è importante vedere una partita e seguire i campionati, truccati o meno che siano, dunque meglio nascondere in fretta ogni fattaccio in attesa del successivo, per poi ripetere il metodo.
IL CALCIO IMPANTANATO – Visto in tal modo, il calcio secondo Beha e Di Caro sembra proprio assumere le fattezze dell’oppio dei popoli che, unito alla fittezza degli eventi e alla concatenazione tra gli attori fa sì da confondere le acque a chi assiste allo spettacolo, inducendo a confondere tra buoni e cattivi. A tal proposito è significativo il racconto di Calciopoli. È risaputo di quali e quanti personaggi figurino nel pastrocchio pre-Mondiale del 2006. Il problema è che si parla anche di chi, nella madre di tutti gli scandali, avrebbe apparentemente il ruolo della vittima, del ‘buono’, del martire di un sistema governato da Big Luciano e i suoi scagnozzi. Un nome su tutti: Giacinto Facchetti. Non è un caso se in tanti hanno lanciato pesanti accuse nei confronti di Beha, tacciato di avallare suo malgrado le tesi moggiane che volevano il compianto presidente interista parte in causa. Una brutta pagina, della quale è inutile ricordare che la stragrande maggioranza degli sportivi non pensi minimamente a coinvolgimenti diretti della bandiera nerazzurra. Pur trattandosi di tutt’altra storia, è sufficiente per dare l’idea della confusione caotica del nostro calcio. Che Beha paragona metaforicamente a un pantano melmoso e fangoso. Lo fa nelle prime pagine: “Il pallone non rimbalza più. Per lo meno non rimbalza normalmente, come dovrebbe, come siamo abituati a vedere da oltre un secolo. Non rimbalza in mezzo al campo, perché il terreno di gioco è ormai una palude, e nella palude la sfera si ferma, si spiaccica e muore lì. Ma il calcio, il campionato, le partite devono andare avanti […]. E allora i gestori del pallone, che in buona parte coincidono con i gestori del Paese oppure da essi strettamente dipendono in filiere sempre più corte, sono costretti a chiedere agli arbitri un piccolo favore: le giacchette giudiziarie, il terminale in calzoncini della giustizia sportiva che si regge sul concetto di lealtà secondo le carte federali, per far rimbalzare la palla come da regolamento devono cercare il duro ovunque si trovi, anche per centimetri quadrati. […] Non mi meraviglierei che prima o poi, ma temo di questo passo assai presto, il direttore di gara di turno, pur davanti a una superficie visibilmente e completamente putrefatta, sia obbligato dalla necessità e dal business a far rimbalzare il cuoio plastificato nella piccola area tecnica di fronte alle panchine, […] Così che si può sempre affermare in regime di semi-verità che il pallone rimbalza, il campo dunque è agibile e la partita si può giocare”. Siamo alle prime battute, eppure già qui è riassunto il senso di tutta l’opera. Che difatti, detto per inciso, ha origine dall’ennesima faccenda puzzolente: la Scommessopoli del 2011. Quella di Doni e Signori, dei giocatori addormentati coi sonniferi, dei portieri che subiscono reti a bella posta. Tutto già scritto. Tutto simile ad analoghe commedie all’italiana. Tutto destinato all’assuefazione e al dimenticatoio anche stavolta. Scommettiamo (appunto …)?