IL REAL PRIMA DEL BERNABÉU: L’ESTADIO CHAMARTÍN

Nel Napoli più iberico della storia, scopriamo le curiosità, gli aneddoti, il modus vivendi della cultura spagnola

¡Hola!
Tempo fa vi abbiamo parlato di Les Corts, la storica casa del Barcellona prima dell’avvento del Camp Nou. Quindi ora è d’uopo occuparsi della grande rivale dei catalani, il Real Madrid, l’altra big di Spagna. Inutile dire che pensare alle ‘Merengues’ proietta la mente al ‘Santiago Bernabéu’, il tempio del calcio intitolato alla memoria dell’uomo che, da presidente dei Blancos, fondò la loro immensa forza. Un tempio che serba dolci rimembranze ai tifosi italiani, e momenti invece non bellissimi a quelli napoletani (ricordate la Coppa Campioni ’87-’88?). Da quasi settant’anni, dunque, è su questo palcoscenico che il Real ha costruito la sua potenza. Per la verità l’aveva già fatto prima, su un altro campo di battaglia non meno glorioso: l’Estadio de Chamartín.

FARAONICO E ALL’INGLESE – Dopo aver trascorso i suoi primi vent’anni di vita sul campo dell’Avenida Plaza de Toros e all’Estadio O’ Donnell, nel 1922 il Real Madrid decide di spostarsi altrove e sceglie il Velódromo di Ciudad Lineal, il quale però si rivela poco funzionale allo svolgimento del football, specialmente per la sua scarsissima capienza (8000 spettatori …). E così l’anno dopo la società, allora presieduta da Pedro Parages, acquista dei terreni nell’allora comune di Chamartín, oggi distretto periferico inglobato nella Capitale. Quelle terre, conosciute col nome di ‘Villa Rosa’ e situate alla fine del Paseo de la Castellana, vengono comprate dal Real alla cifra di 642.000 pesetas: un’enormità per l’epoca, tant’è vero che il club si vede costretto a richiedere mezzo milione di credito. Il progetto per la costruzione dell’impianto viene realizzato dall’architetto José María Castell, ex giocatore dei Blancos e già responsabile, poco tempo prima, della costruzione dell’Estadio Metropolitano, casa dei cugini dell’Atlético per quarant’anni. Il nuovo stadio prende subito forma e viene inaugurato il 17 maggio 1924 con un’amichevole tra il Real e il Newcastle vinta dagli spagnoli 3-2. Il nuovo stadio è ubicato tra i Caminos Arenal e Maudes e la calle Alfredo Calderón. Edificato all’interno di un complesso polisportivo ben organizzato, composto da piscina, pista da hockey, campo d’allenamento e da tennis, oltreché dotato di una sala ristorante e di un club sociale, può contenere fino a 15.000 unità, di cui 4.000 nella tribuna coperta, forse l’elemento più di spicco dell’intero catino con la sua tettoia. Gli altri 11.000 spettatori prendono posto nei rimanenti posti scoperti. La visuale è nitidissima: terreno di gioco e pubblico sono appena separati, è evidente l’ispirazione british caratterizzante il nuovo fortino delle ‘Merengues’, definito addirittura ‘faraonico’ dalla stampa di allora. I madrileni litigano solo per la sua denominazione: c’è chi vorrebbe dargli il titolo di ‘Parque de Sports del Real Madrid’, e chi (cioè la maggioranza) desidererebbe chiamarlo ‘Campo del Real Madrid Fútbol Club’. I tifosi non amano le formalità e lo chiamano semplicemente ‘Chamartín’, proprio come la cittadina che li ospita. Con quel nome verrà tramandato ai posteri. E nel nuovo stadio il Real costruisce uno dei suoi periodi di maggior ribalta, costellato da 5 Campeonatos Regionales Centro, 2 titoli di Spagna e 2 Coppe nazionali. E con protagonisti già Bernabéu, capitano coraggioso e goleador, Ciriaco, Pérez, Rubio, Quesada, Monjardín, Peña e il ‘Divino’ Zamora tra i pali.

RESURREZIONE E MORTE – E il nome ‘Chamartín’ resta tale anche quando l’orrore dell’assurda Guerra Civile cancella l’allegria del calcio. Scarseggiano materie prime, specialmente legna, sicché lo stadio viene smantellato pezzo per pezzo. Il terreno di gioco è deteriorato dal mancato utilizzo (si tornerà a giocare solo a conflitto finito, nel ’39). Molti trofei vengono rubati e per giunta la sede sociale viene distrutta da un bombardamento della truppe di Franco. Il Real non ha più giocatori, e non ha più un organigramma stabile. E’ a questo punto che, insieme a vecchi dirigenti tornati in corsa (tra cui Parages), emerge di nuovo l’uomo fatto leggenda: Bernabéu. Intrapresa, dopo quella da atleta, la carriera di allenatore prima e di direttore sportivo poi, prende contatto con i vecchi soci e calciatori, riuscendo così a raccogliere miracolosamente 300.000 pesetas. Quanto basta per rimettere su una squadra e, soprattutto, per ricostruire Chamartín, che risorge a nuova vita il 22 ottobre 1939: avversari i rivali cittadini dell’Atlético, le Merengues vincono 2-1. Ma il vero vincitore è il pubblico, che accorre in massa all’evento testimoniando un amore mai spento. Un amore che stimola la dirigenza ad ampliare il Chamartín sino a 25.000 spettatori. Un numero corposo, data l’emergenza dell’immediato dopoguerra, che però si rivela già insufficiente per un club pronto a diventare il più forte del mondo di lì a una quindicina d’anni. Bernabéu, divenuto presidente nel 1943, vede già lontano e annuncia di voler costruire uno stadio ancora più bello e più grande, capace di permettere a 120.000 madridisti di assistere allo spettacolo offerto dai Blancos. Ritenuto alla stregua di un visionario, quando non di un pazzo, Don Santiago alla fine vedrà realizzato il suo sogno: uno stadio enorme, monumentale. Un ‘Nuevo Chamartín’ da costruire non distante dal ‘Viejo’, bensì sui terreni confinanti con esso. Quel ‘Nuevo Chamartín’ diverrà nel 1947 il nuovo teatro del Real, e nel 1955 i soci lo dedicheranno all’uomo più rappresentativo della storia ‘Merengue’. E il vecchio Chamartín? Il 16 maggio 1946 si gioca l’ultima partita: semifinale di ritorno di Coppa di Spagna, Real Madrid batte Real Oviedo 3-1, l’ultima rete è di Pruden. Verrà poi una demolizione che tuttavia non cancellerà la storia, né i sacrifici compiuti da tutti affinché l’impianto non morisse già una prima volta. E se è vero com’è vero che il ‘Bernabéu’ sorge lì a pochi passi, allora vuol dire che quello spirito antico e romantico, rappresentato da uomini in candide divise bianche e dai tifosi che li sostenevano a gran voce, non s’è perso del tutto. Anzi, è rimasto vivo, seppur in una dimensione diversa.

¡Hasta la próxima!

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