‘Best’: ritratto poco fedele di un campione
Girato nel 2000, il film di Mary McGukian dedicato al leggendario asso dello United delude le attese. Fornendo un ritratto troppo concentrato (oltreché negativo) sull’uomo più che sul calciatore
Le biografie dei re del calcio sono merce rara nella storia del cinema. Ossia, le opere della settima arte dedicate allo sport più bello del mondo si concentrano assai di rado sui protagonisti realmente esistiti, capaci di illuminare i prati verdi con i loro lampi. Tanto i documentari come i film veri e propri hanno provveduto allo scopo. Con la differenza che i primi ritraggono i protagonisti in reali immagini di repertorio, mentre i secondi lavorano di narrativa soffermandosi soprattutto sul calciatore in quanto uomo, non essendo gli attori bravi con la boccia e dunque in grado di mostrar i miracoli dei personaggi interpretati. Molto spesso però parlare di un calciatore costituisce l’intelligente pretesto per rappresentare l’autentica realtà che lo riproduce, per dirla alla Francesco Rosi. Ciò tuttavia non succede spesso. Specialmente con Best (2000), l’opera malinconica e triste diretta da Mary McGukian e dedicata appunto a George Best, il genio sregolato nordirlandese che negli anni ’60 stregò e affascinò mezza Europa pallonara. Un film che pecca, seppur non gravemente, su entrambi i fronti. Da una parte fornisce un ritratto troppo concentrato sul lato oscuro (maledetto, negativo, poco edificante) del campione: di quest’ultimo c’è ben poco. Dall’altra non è del tutto presente l’eccitante, suggestivo e penetrante contesto socioculturale dei favolosi anni ’60. Quelli dei quali Best è stato non a caso un’icona. Tanto da venir chiamato ‘quinto Beatle’.
ASCESA FULMINEA – Interpretato da John Lynch (ottime prove in Nel nome del padre e Sliding Doors), marito della regista e insieme a lei stessa co-sceneggiatore del film, Best viaggia con la mente rivolta al passato dopo la solita, ennesima, notte con sbornia passata in un locale nel 1994. A risvegliarlo dal torpore e a riportarlo agli anni d’oro la notizia della morte del mitico Matt Busby, l’ex manager del Manchester United, l’uomo che ha avuto l’intuito di lanciarlo in prima squadra da ragazzino su felice intuizione del suo osservatore Bob Bishop, quando questi lo scova su un campetto di periferia di Belfast. Realizzata la morte del suo mentore, il vecchio George, appesantito da vizi e stravaganze, riavvolge il nastro. L’esordio coi Red Devils a diciassette anni, la difficile gavetta e il lavoro per crescere, i primi successi in campo nazionale che lo impongono all’attenzione degli addetti ai lavori. La sua anima, già fragile e debole, riesce ancora a sopportare il peso del successo. Che arriva anche in Europa, specie quando il buon Busby costruisce attorno al folletto nordirlandese una formidabile batteria d’attacco con l’elegante Bobby Charlton e il micidiale Denis Law. Dopo i due campionati vinti nel ’65 e nel ’67, arriva per Best l’annus mirabilis 1968: Coppa Campioni, miglior calciatore inglese dell’anno e Pallone d’oro, unico nella storia del dignitoso football made in Ulster. Ma tutti questi eventi vengono raccontati in maniera fulminea. Fulminea almeno quanto la parabola ascendente del campione. Che infatti viene evocata senza sale, senza poesia. Cioè, senza le gesta funamboliche di un atleta dallo scatto micidiale e dal dribbling ubriacante. Un uomo gracile, apparentemente inadatto al gioco maschio eppure in grado di regalare alle folle spettacolo, arte ed estetica del calcio. Tutto ciò è appena accennato nella pellicola.
POETA TROPPO MALEDETTO – C’è tanto, forse troppo spazio invece per quel che avviene dopo. Per il calciatore che diventa divo, e quindi icona di un’epoca. Best porta nel calcio moda, modus vivendi e agendi, virtù e vizi di un decennio intrigante e al contempo contraddittorio, pieno di luci e ombre. È a tutti gli effetti un ‘quinto Beatle’, il Gigi Meroni d’Oltremanica, anche nell’immagine che dà fuori dal campo. Molto presto il suo nome finisce sui giornali per ben altri motivi: auto di lusso, belle donne conquistate, look stravagante e glamour. Finché giungono i vizi, in primis l’alcool, il suo più grande nemico. Nel baratro ci finisce fin da subito, benché Busby e i compagni cerchino di tirarlo fuori. Quando però alla guida dello United arriva Tommy Docherty, George ha ormai imboccato la via dell’autodistruzione: litiga col nuovo manager, salta gli allenamenti, e quando non marca visita accade solitamente dopo una bevuta. Tuttavia in campo regala sprazzi, consapevole di un genio ancora vivo: “Io so davvero giocare a calcio e questo nessuno potrà mai portarmelo via”. Nel 1974 i declinanti Red Devils retrocedono in B. S’è chiusa un’epoca, e George lo sa: lascia per sempre l’Old Trafford. I tifosi non lo dimenticheranno mai. E nemmeno i suoi spettri, pronti a inseguirlo quando spende, o meglio spreca, la sua seconda parte di carriera tra Europa e America, tra l’orgogliosa provincia calcistica britannica e lo spettacoloso circo del soccer statunitense. Ma anche tali elementi sono assenti. Di più: l’immagine che ne viene fuori è smorta, tetra, triste. Non è quella di un Best decadente, sceso dagli altari alla polvere, bensì di una persona già umanamente sconfitta, e in maniera netta. Di un uomo deperito, emaciato, torvo, divorato dal bere e dal portarsi a letto donne da rotocalco (anche due Miss Universo). Più anche di quanto non lo sia stato nella dura realtà. Il tutto poi edificato su un attore intenso e preparato come Lynch, che nondimeno mostra di non avere del tutto il ‘physique du role’ per incarnare l’idolo di Maradona (Pibe dixit). Nelle movenze, come pure a livello prettamente somatico. Un film ‘umano’, dunque, se così lo si può definire. Un ritratto egocentricamente fermo sulla figura del protagonista. Ma con l’obiettivo poco orientato alle vie di fuga e alla prospettiva, eccessivamente puntato sul soggetto centrale. Raffigurato molto come uomo e poco come calciatore. Molto come poeta maledetto, rocker appartenente alla famigerata ‘generazione dei 27’, bello e dannato. Poco come eroe sfortunato, cavaliere disarcionato, vittima sfortunata e consapevole dei propri errori, pentita peraltro. Un po’ come il nostro Carlo Petrini. Ciò che Best è poi davvero stato negli ultimi anni, fino alla morte nel 2005. Pentimento che nelle ultime fasi del film emerge, sebbene in modo sfumato. Ad ogni modo, il giudizio complessivo sul film non è del tutto positivo. Per ricordare degnamente il ‘quinto Beatle’ ci sarebbe voluto ben altro che un’opera simil-pessimistica.