1982: il fiasco ‘Mundial’ delle Furie Rosse
Nel Napoli più iberico della storia, scopriamo le curiosità, gli aneddoti, il modus vivendi della cultura spagnola
¡Hola!
Quando in una query su Google accostiamo tutte insieme le parole ‘Bernabéu’, ‘Spagna’, ‘1982’, a quel punto non occorre inserire il termine ‘Italia’, perché le pagine celebranti l’inatteso trionfo mondiale degli Azzurri di Bearzot escono automatiche. E a chi quell’anno c’era riportano alla mente ricordi dolci ed esaltanti. Quello giocato nella torrida terra iberica nell’indimenticabile estate di trentatré anni or sono fu soprattutto il Mundial dell’Italia, il mondiale in cui avremmo dovuto tornare a casa dopo pochi giorni e nel quale invece divenimmo protagonisti, più degli altri. E tra gli altri, appunto, non erano accreditati soltanto i Bleus di Platini, i panzer tedeschi di Rummenigge, gli esaltati giocolieri brasiliani, i campioni in carica argentini del giovane Maradona, i ritrovati Leoni d’Inghilterra. Bensì anche loro, gli spagnoli. Non foss’altro perché avessero il ruolo degli anfitrioni, e dalla loro dunque il favore del pubblico oltreché della felice tradizione per le rappresentative organizzatrici. Ma non soltanto per quello.
IL RITORNO DELLA ROJA – Dopo la partecipazione da Campione d’Europa in carica al Mondiale inglese del ’66, la Roja conosce un periodo di triste e profondo declino, mancando gli appuntamenti sia con le fasi finali iridate che con quelle continentali. Le Furie Rosse rompono l’isolamento solo undici anni dopo, quando ottengono a fatica il pass per Argentina ‘78. Sebbene sfortunato (eliminazione al primo turno per peggior differenza reti), il ritorno della Spagna al Mondiale testimonia quanti benefici abbia portato il profondo rinnovamento del fútbol rosso-oro e della sua Nazionale. Il lavoro certosino svolto dall’ex stella del Barça Laszlo Kubala ha consentito l’emergere e la crescita di elementi validi (anche se non proprio dei campionissimi) come Arconada, San José, Asensi, Migueli, Juanito, Alexanko, Camacho, Gordillo, Sánchez, Saura, Santillana, Quini. Il rilancio però è lento e incostante. Agli Europei di Italia ’80 gli spagnoli arrivano miseramente ultimi nel loro girone, lo stesso degli Azzurri. Kubala si dimette. Al suo posto subentra un’altra vecchia gloria, stavolta madridista: José Santamaría. Che giunge in tempo per preparare al meglio l’appuntamento tanto atteso: il Mondiale in casa. Gli spagnoli lo attendono dal 1966, da quando cioè la FIFA ha assegnato, tutte e tre contemporaneamente, le edizioni 1974, 1978 e 1982. La Spagna lascia via libera alla Germania Ovest per il ’74, ricevendone però in cambio l’appoggio per l’82. Fresco di ritorno alla democrazia, il rinnovato Stato spagnolo dà di sé la sua nuova immagine: diciassette stadi rinnovati in toto, nuove reti di trasporto, una macchina organizzativa efficiente, pur se non ai livelli minuziosi e cervellotici messi su dai teutonici otto anni prima. Le immagini nitide e pulite della rampante Televisión Española giungono in centocinquanta Paesi per un totale di due miliardi di telespettatori. I controlli e la sicurezza sono essenziali, ma asfissianti. C’è da capirlo: solo un anno è passato dal mancato golpe del colonnello Tejero (23 febbraio 1981) e l’ETA ha già fatto i suoi morti. Il clima del post-franchismo è ancora caldo ….
SPERANZE DELUSE – Dunque, Santamaría e i suoi ragazzi non formano uno squadrone, ma possiedono comunque le credenziali per ben figurare dinanzi ai loro beniamini. Tanto più se si pensa che nell’arco di due anni hanno ottenuto in amichevoli alcuni risultati rilevanti. Su tutti, una clamorosa affermazione a Wembley (2-1) contro gli inglesi. E nell’estate ’81 sono andati in America per una tournée, durante la quale sono stati sconfitti solo di misura dallo strabordante Brasile. Ma l’ex idolo del Bernabéu è inviso alla stampa, ancora piangente per Kubala. E difatti, proprio dopo l’impresa contro i maestri del calcio, il CT, forse consapevole di aver toccato il tetto massimo, ha persino pensato di passare la mano. Il totale rifiuto da parte del boss della Federcalcio spagnola Pablo Porta ha lasciato il mondo com’era. Tuttavia, più passa il tempo più sale l’ansia per le Furie Rosse. Il clima di tensione sociale di quegli anni e il rischio attentati, e di qui la psicosi, spingono ad aumentare la sorveglianza della Guardia Civil sugli iberici, asfissiati dalla task force per oltre un mese. Infine a compiere la frittata ci si mette il passaggio, nel giro di poche settimane, dal gelo pirenaico de La Molina al forno valenciano di El Saler, con conseguenze disastrose sulla condizione fisica. Nessuno si meravigli, quindi, se all’attesissimo esordio contro il modesto Honduras il 16 giugno a Valencia la Spagna giunga con le pile decisamente scariche. Quella sera al ‘Luís Casanova’, odierno Mestalla, gli anfitrioni si trovano di fronte undici centroamericani scatenati e indiavolati. E capaci di andare in goal con Zelaya dopo soli sette minuti. La Roja fatica a riordinare le idee e raggiunge il pari solo grazie a un rigore trasformato da López Ufarte, colonna della Real Sociedad Campeón de España. Gli addetti ai lavoro storcono il naso, e ciò non fa altro che scoraggiare gli idoli di casa. Quattro giorni dopo ecco la temibile Jugoslavia, prima nel suo girone di qualificazione europeo dinanzi all’Italia. Al 10’ i ‘Plavi’ passano con Gudelj. Ad aiutare gli spagnoli ci si mette l’arbitro danese Lund-Sørensen, il quale concede un altro rigore per fallo concesso fuori area su Perico Alonso. López Ufarte stavolta sbaglia, ma il direttore di gare fa ripetere e stavolta l’indimenticato Juanito fa centro. E nella ripresa ci pensa Saura a togliere le castagne dal fuoco segnando in scivolata su corner. Eppure rispetto al debutto nulla sembra cambiato, di miglioramenti nemmeno a parlarne. E infatti, nella terza e ultima partita del Gruppo 5, arriva la caduta contro la rognosa Irlanda del Nord. Arconada liscia su cross di Hamilton, Armstrong infila lesto a porta vuota. E nonostante i britannici rimangano in dieci per l’espulsione di Donaghy, la Spagna non riesce a recuperare. Seconda ex aequo con la Jugoslavia, si qualifica per il gironcino a tre solo grazie al maggior numero di reti segnate (3 a 2), a parità di differenza, nei confronti dei balcanici. Il Gruppetto 2 è di ferro: ci sono i colossi Germania Ovest e Inghilterra. Dopo che teutonici e albionici si sono annullati a vicenda (0-0), la Spagna affronta i primi il 2 luglio al Bernabéu. C’è il pienone delle grandi occasioni, e stavolta le Furie Rosse se la giocano. Ma il tasso tecnico, l’esperienza e, soprattutto, le gambe danno una marcia in più ai tedeschi. In più ci si mette ancora lo sfortunato Arconada. Al 50’ una sua corta respinta su tiro da fuori di Dremmler consente a Littbarski di segnare, e al 75’ manca l’uscita su quest’ultimo: la palla va a Fischer che elude il disperato tentativo di Urquiaga sulla linea di porta e chiude i conti. A nulla serve la platonica rete di Zamora. La Spagna è già eliminata. Il pareggio a reti bianche contro l’Inghilterra serve solo a togliersi lo sfizio di eliminare i boys di Ron Greenwood dal Mundial, oltreché negargli la rivincita dell’onta di Wembley. Quel Mundial che avrebbe dovuto sancire il rilancio della Roja e invece termina con uno dei suoi peggiori score a una rassegna, tra i più brutti mai raggiunti da un Paese organizzatore. Un fiasco autentico, una mazzata terribile per il fútbol español. Di essa ne paga le conseguenze Santamaría, esonerato quasi all’istante. Nel docufilm España 82: Hace 25 años trasmesso da Canal+ nel 2007, egli stesso dirà: “Dopo quel Mondiale me ne sono andato dal calcio. In otto anni non ne ho voluto sapere più niente. Ma nel fare ciò ho sbagliato”. Non fu solo colpa sua, a dire il vero. Non erano ancora tempi maturi affinché la Selección tornasse ai fasti degli anni ’60. E per tornare a tali fasti, e poi superarli, sarebbero occorsi più di vent’anni.
¡Hasta la próxima!